Storie di cooperazione - Ostetrica prima di tutto

 

Gaia con i bambini dell'orfanotrofio di Karungu, Kenya


Oggi parliamo con Gaia, 24 anni, originaria di Città di Castello. “Tutto inizia” ci racconta “proprio perché fuggo da lì”. 

Il liceo scientifico nella sua città, poi l’università, ostetricia, a Roma.

Cosa sta facendo adesso Gaia? Sta compiendo un passo forte nel percorso che vuole portare avanti, quello del mondo della cooperazione. Non è la sua prima esperienza in questo ambito, e dalle sue parole deduciamo che non sarà  l’ultima. 

In questo caso è partita con il servizio civile internazionale per andare a svolgere la sua professione nell’ospedale di un villaggio sul lago Vittoria, in Kenya. 

E noi ci siamo fatti raccontare tutto, da come funziona la missione a cui partecipa fino a cosa vuol dire voler girare il mondo a vent’anni, in contesti per nulla facili e sempre lontani da casa propria. 


Raccontaci cosa stai facendo adesso. Come funziona? Quali sono gli aspetti sfidanti e quelli soddisfacenti del tuo lavoro?


Sono partita a fine agosto con il servizio civile, ora sto lavorando in un ospedale a Karungu, in Kenya. Faccio l’ostetrica, ma ovviamente ci sono molti fattori in più da tenere in considerazione rispetto a quando svolgi la stessa professione in Italia.


Iniziando da quelle che sono le grandi difficoltà, sicuramente la prima con cui mi sono dovuta interfacciare sono le enormi differenze culturali, di tradizione. Mi trovo in un paese che per quanto riguarda i diritti delle donne è abbastanza indietro e questo si riflette su ogni aspetto fino a dentro alla sala parto; la posizione della donna è costellata di difficoltà, dalla violenza fisica effettiva, passando per le mutilazioni genitali femminili, fino alla violenza ostetrica. 

Corso su Sexual and Reproductive health nel campo richiedenti asilo di Serres, Grecia

Io che ritengo il mio un mestiere di empowerment femminile, di azionismo, e che sono molto legata al lato femminista di questo lavoro, ho difficoltà a scontrarmi con questa situazione. 

Spiegarlo non è facile, non ho soluzioni in mano in questo momento, anche da testimone di questi eventi non posso essere io a dire ‘non si fa così’: la mia è la visione del mondo occidentale che viene portata e ‘inculcata’ nei paesi a scarse risorse. Lo sviluppo non funziona così, deve essere basato su un dialogo. L’unica cosa che posso fare è infatti parlare, chiacchierare con le ragazze, con i miei amici e colleghi infermieri, tirare fuori l’argomento ma non porre mai un’imposizione. Deve essere un discorso che parte dalla confidenza, dall’amicizia. 


Andando ad affrontare aspetti più felici della mia esperienza, partirei dal dire che sto in un ospedale molto bello, pieno di strumenti, una sala operatoria funzionante, incubatrici.. insomma, la parte tecnica da ostetrica non è troppo difficile, è come in Italia, sto imparando tantissimo.

Lavoriamo su turni, generalmente due mattutini, due pomeridiani e uno notturno (prima dei due giorni di smonto), e siamo sempre io ed un altro infermiere. 

Qui sono gli infermieri effettivamente a fare tutto: il dottore (un medico di medicina generale), passa la mattina e da informazioni su come gestire i pazienti per poi andare via. I reparti quindi vengono gestiti interamente da noi.

L’assenza di figure professionali più specifiche, dai ginecologi ai neonatologi, ovviamente si traduce poi in aspetti positivi e negativi. Da una parte infatti sarebbe necessario potercisi rivolgere all’effettivo esperto in molte situazioni, ma dall’altra permette a noi di fare cose che in Italia mi sognerei di fare: imparo tantissimo, vivo moltissime situazioni interessanti. 

Una cosa che noto, ovviamente, è che ho molte più possibilità di interfacciarmi con la forza incredibile dei bambini; in Italia, con tutti i reparti e le figure professionali a disposizione, non mi rendevo mai conto di cosa accadesse ad un neonato dopo che è stato male. Invece adesso se, ad esempio, faccio nascere un bambino pre-termine o ha altre complicazioni, sarò sempre io ad occuparmene vedendone quindi tutte le evoluzioni. 

Ovviamente ogni tanto non va tutto bene: siamo comunque in Kenya. Però devi puntare alle vittorie. 

In questo, come in tutti i lavori che prevedono un continuo contatto con persone fragili e situazioni difficili rischi il burnout: è importante avere sempre la mente orientata verso il lato positivo delle cose. 


Sono stata fortunata a riuscire a partecipare a questo progetto, ho a che fare con belle persone: dai Camilliani che organizzano da vent’anni la missione, ai miei colleghi, alla ragazza che fa servizio civile con me (che non lavora in ospedale ma in orfanotrofio) con cui vivo. È bello tornare a casa la sera e ritrovarla, condividere quest’esperienza con lei. 


Facciamo un passo indietro: che percorso ti ha portato ad essere qui oggi?


Vorrei iniziare dicendo che mi ritengo una persona privilegiata: vengo da una famiglia impegnata, che mi ha cresciuta in un ambiente culturalmente e socialmente ricco, sono stata tirata su non solo dai miei genitori ma anche da una vera e propria comunità di persone. Tutto inizia anche grazie alle possibilità che in questo senso mi sono state date per tutta la vita: ho visto da sempre fare volontariato e sono cresciuta facendolo io stessa. È stato quasi naturale pensare di fare della cooperazione il mio lavoro. 

I miei ultimi anni di liceo sono stati terribili: non mi piaceva studiare, ero indecisa, non sapevo cosa volevo dopo. Poi ho fatto un’esperienza in Kossovo che mi ha portata a decidere di non fare l’università e provare a capire se fosse quello lo stampo da dare alla mia vita. 

Ed è così che, appena finite le superiori, sono andata in Kenya per la prima volta. Sono stata lì sei mesi e quella è stata l’esperienza che ha cambiato tutto: non tanto per quello che ho fatto in sé, ma perché mi ha dato modo di decidere di prendere un anno di pausa prima di iniziare l’università. 

A posteriori penso che senza questa esperienza avrei studiato agraria (non ricordo neanche perché volessi farlo, ero solo persa), nonostante già sapessi di voler fare qualcosa in ambito medico: la pressione messa dal liceo, dai voti al non sentirmi all’altezza dell’università che avrei voluto davvero fare, mi avevano convinta a cambiare strada. 

Ora ringrazio di non esser stata all’interno di quel sistema, di non aver seguito il percorso lineare che ci si aspetta dai ragazzi. 


Dopo il Kenya mi sono rimessa in sesto, e mi sono accorta che non mi pesa studiare se è per qualcosa che mi piace: così ho iniziato l’università, ho studiato ostetricia a Roma.


Avevo la consapevolezza già da prima di iniziare delle mie ambizioni: volevo fare l’ostetrica e volevo fare cooperazione. Questo mi ha portata, durante il percorso di studi, ad avvicinarmi a persone che lavorano in questo ambito, mi sono focalizzata per la tesi di laurea su questa branca che si chiama Global Health che guarda alla salute in modo globale, non incentrato sull’approccio medico o biologico ma anche su argomenti come l’equità della salute, la sua distribuzione nel mondo. 

In questo ambito oggi sto frequentando un master europeo poco conosciuto che si svolge su cinque anni, quindi permette di gestire bene le spese richieste, e da la formazione necessaria per occuparsi di coordinamento di progetti sanitari in ambito di cooperazione. 

Non è sempre facile trovare questi progetti, per questo è importante avere a che fare con persone del settore, crearsi un buon circolo intorno. È per questo motivo che mi sento di dovere tanto al professore che mi ha accompagnata nella tesi di laurea: mi ha portata dove sono oggi, mi ha fatto conoscere tutto.


Finiti gli studi non volevo lavorare in Italia, avevo bisogno di partire: il covid mi aveva impedito di muovermi per due anni, e questo ha incluso anche l’impossibilità di esperienze generalmente offerte dall’università (come Erasmus, altri progetti mensili all’estero ecc.). 

La mia priorità era di entrare nel mondo della cooperazione o del volontariato con la mia professione, non sarei partita se non avessi trovato una possibilità nel mio ambito.

Ritengo molto importante essere focalizzati: anche durante l’università quando avevo necessità di lavorare lo facevo nel mio settore, volevo rimanere fissa sull’obiettivo e crescere professionalmente. 

Io sono ostetrica prima di tutto, e devo evolvere come tale. 

Per fortuna appena finita l’università ho trovato un’organizzazione che mi ha fatta entrare in un campo di richiedenti asilo a Lesbo dove seguivo le gravidanze, mi occupavo di corsi preparto e di assistenza neonatale per le donne che partorivano. È stato un bellissimo progetto, e mi ha confermato quello che voglio fare nella vita. 

Finita quell’esperienza ho iniziato il master ed ho fatto richiesta per il servizio civile, che mi ha fatta partire ad agosto del 2022. E questo ci porta ad oggi.


Sempre lontana da casa, sempre in movimento e con una professione già di suo non semplicissima. Che impatto ha sui rapporti e sulla vita sociale?


Mi fa ridere pensare a come le precedenti due volte che sono partita questo abbia portato alla fine delle relazioni che stavo vivendo. Non è identificativo, erano relazioni che sarebbero comunque terminate, però credo sia importante dirlo: è così che vive chi fa questo. 

Adesso non riuscirei a mettere questo davanti alla mia vita lavorativa: sono molto concentrata sulla carriera, il mio piano prevede che io rimanga in giro per almeno altri cinque anni a fare esperienze che mi facciano crescere professionalmente e mi aiutino a creare un buon curriculum.

Sono molto legata ai miei amici storici, e per mantenerli è necessario imparare ad essere comunque presente, quindi cerco di esserci il più possibile anche se spesso è solo per telefono. 

La mia fortuna è avere una famiglia che sta bene e che mi supporta: se a casa servisse il mio aiuto non potrei fare questa vita. Ribadisco: mi ritengo privilegiata, e non parlo del fattore economico ma di quello sociale. 

Ovviamente non è semplice: nell’ultimo anno ad esempio mi è capitato di fare cinque traslochi in cinque città diverse, quattro paesi, due continenti. 

Non è per tutti. 

Però intanto vedo le mie compagne di corso dell’università su Instagram che festeggiano il posto fisso e mi prende male: non è a quello che punto, la mia decisione è di vivere in un altro modo. 

E non farei nient’altro nella mia vita adesso.


Quali sono i prossimi passi? Dove ti vorresti vedere tra dieci anni?


Io voglio fare carriera. Sembra sempre un concetto legato a connotazioni negative, ma non è così.

Per qualche altro anno voglio fare esperienza come ostetrica di sala parto per imparare a lavorare bene, gestire le emergenze, essere una brava ostetrica. 

Poi vorrei lavorare in cooperazione gestendo i progetti sanitari, magari nelle tantissime organizzazioni che ci sono al mondo (tra le più grandi ad esempio Medici senza frontiere, Emergency). 

Mi piacerebbe arrivare a posizioni alte, a lavorare in OMS. Va bene avere delle aspirazioni grandi. 

L’importante è entrare nel circolo della cooperazione: è il lavoro che fa per me tra il viaggiare, il contatto con tanta gente diversa con la sua cultura e le sue tradizioni, anche lo stesso essere lontana da casa. 


Quali sono tre caratteristiche di te stessa che pensi ti siano utili in questo percorso?


Per prima cosa direi essere un po’ cinica e un po’ stronza: questo mi salva la vita, sia nel lavoro che nelle relazioni umane. Quel po’ di cinismo che ti protegge dal mondo. 

Come seconda cosa direi che, da brava capricorno, sono determinata, obiettivo-dipendente: vivo ad obiettivi da seguire, sono questi a smuovermi. Mi porta avanti nel lavoro, nella quotidianità e nella pianificazione del futuro.

In ultimo sono sciolta, espansiva, chiacchiero: questo mi aiuta a trovarmi bene ovunque, ad aprirmi con le persone, a portarmi a casa almeno un’amicizia vera da ogni posto in cui sono stata. Porto con me tutte le persone a cui mi lego, credo nei rapporti e li coltivo. 


Che consigli daresti a chi vuole intraprendere questa carriera?


Fate tanta esperienza, volontariato, anche in Italia: questo mondo è fatto di rapporti ed è così che si costruiscono. 

Puntate sempre un pochino più in alto: io ad esempio la prima volta ho fatto volontariato, la seconda volontariato con rimborso spese, stavolta mi pagano. Bisogna fare gavetta, ma è anche importante avere rispetto per se stessi, per il proprio percorso e per il proprio lavoro. 

Alla lunga il volontariato può diventare umiliante, ti senti sfruttato, è necessario un riconoscimento di qualche tipo. 

Anche perché è questo che spesso rende la cooperazione un ambiente elitario: non avere una retribuzione per ciò che si fa lo rende poco accessibile a chi non ha possibilità di farsi mantenere.

Se non avete la possibilità di viaggiare il servizio civile internazionale è molto valido: ti da un buono stipendio più vitto e alloggio, permettendoti di mettere qualcosa da parte e intanto viaggiare e lavorare nell’ambito che ti piace. Queste possibilità esistono!


Un altro consiglio è quello di non avere l’ansia dello step successivo, e questo vale per tutti. Parlo in primis dello step successivo al liceo: non serve sapere già cosa vuoi fare quando finisci, ci sono persone che studiano anni prima di rendersi conto di aver sbagliato percorso, o che comunque non sanno come andare avanti. 

Va bene prendersi un attimo per respirare, non si perde nulla: è solo guadagno. 

La stessa cosa vale per dopo l’università: non avere l’ansia del posto fisso. Ci distruggerà.


Come ultima cosa direi che è importante non avere paura di cambiare idea, non essere troppo severi con se stessi, rimanere aperti al cambiare rotta.

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